Ho già imbastito parte del discorso nel precedente articolo, quindi vado dritta al prossimo punto.
Ti ricordo, prima di impalare la mia testa come fecero col povero Ned Stark, di leggere tutta la serie prima di esprimere un giudizio, anche negativo, e di rileggere bene il disclaimer contenuto nel primo articolo.

Non si tratta solo di “chi vende meglio” o di numeri da capogiro, ma di che tipo di messaggio si sta trasmettendo.
La vera misura di un influencer sta nella capacità di trasmettere un messaggio che va oltre il prodotto. Perché, se da un lato il “successo” si misura in conversioni, dall’altro è la capacità di stimolare il pensiero critico e di promuovere un approccio consapevole a ciò che si consuma che definisce l’impatto reale di chi comunica.

Quando un influencer sa davvero cosa significa “comunicare”, non si limita a mostrare. Spiega, si interroga, crea discussione, si pone domande. Sa che ogni parola, anche se riguarda un fondotinta, ha un peso.
Il vero problema sorge quando tutto è “incredibile” e ogni nuovo prodotto è “una bomba”. A quel punto, il messaggio si perde, e ciò che vediamo non è più comunicazione, ma pura performance.

La linea tra passione e teatrino si fa sempre più sottile, e chi guarda perde la capacità di discernere. 

Oggi si diventa influencer con poco, bastano una manciata di numeri messi bene in colonna — like, follower, visualizzazioni — et voilà. Il talento? L’esperienza? La competenza? È tutto optional. È il pubblico che fa curriculum.
Così succede che persone famose per essere famose finiscano invitate a eventi, ricevano collezioni in anteprima, e vengano trattate come portavoce autorevoli solo perché l’algoritmo ha sorriso loro una settimana sì e l’altra pure.
Non è un’accusa, eh, più una constatazione. Oggi si è “rilevanti” prima ancora di sapere perché. Ma quando si viene ascoltati da migliaia (o milioni) di persone, quella rilevanza ha un peso, volenti o nolenti. E se da un lato è vero che la colpa non è solo di chi riceve tutto questo — ma anche di chi costruisce la macchina — è altrettanto vero che un po’ di coscienza individuale non guasterebbe. Specialmente se pensi che social e telefoni vengono messi in mano a chiunque, a qualsiasi età.

Hai mai sentito parlare degli influencer in the wild? Figure mitologiche, spesso dotate della stessa intelligenza di una gallina, che popolano i bar, le profumerie, i marciapiedi — qualsiasi luogo in cui ci siano una luce vagamente decente e uno sfondo instagrammabile. Telefono in mano, posa calibrata, voce impostata per le stories. Non stanno vivendo il momento, lo stanno producendo. E chi ha avuto l’ardire di uscire di casa per farsi i fatti propri, si ritrova spettatore (non pagante, per fortuna) di contenuti di cui non ha chiesto nulla – parlo per esperienza personale. Anzi, spesso si ritrova anche a farne parte – non voglio nemmeno sapere quante volte sono stata ripresa a mia insaputa, casualmente o volontariamente.
Sembra che oggi tutto debba essere documentato: dal caffè con la schiuma a forma di cuore alla faccia stupita dopo aver messo il primer. Nessuno è più al sicuro da uno smartphone tenuto in verticale con lo sguardo da “sto facendo qualcosa di importante”. Quel che mi chiedo spesso è: importante per chi? E soprattutto: a che prezzo? Non solo in termini di portafoglio, ma anche di significato, perché molte delle frasi fatte che riecheggiano nel mondo del beauty sono il riflesso di questa logica.

🛍️ “Compro le cose io, così non dovete provarle voi”

Un gesto altruista, quasi eroico. Mettono mano al portafoglio con la solennità di un cavaliere medievale per proteggerci dal gravissimo rischio di comprare un fondotinta del colore sbagliato.
Il consumismo diventa così missione umanitaria. Ergerei una statua a lorsignori, collocata all’ingresso dei più grandi centri commerciali, con tanto di targa e citazione.
Non so tu, ma io sto ancora aspettando qualcuno che mi salvi davvero.

💥 “Non faccio vedere tutto quello che ricevo perché non voglio ostentare”

La discrezione, quella vera, si pratica rigorosamente dopo averlo detto a tutti. Come la beneficenza.
In effetti, non mostrare le settordici PR box ricevute nello stesso giorno è un gesto di rara umiltà. Peccato che lo sappiamo comunque e che il non mostrarle sia, paradossalmente, il modo più elegante per farcelo notare.

💡 “Io acquisto poco e SOLO quello che mi serve”

Grazie al cazzo, come direbbe il marchese. C’è gente che con le wishlist di Amazon s’è fatta arredare casa e con i pacchi PR potrebbe tirare su un negozio.

✨ “Questo non è un contenuto sponsorizzato, ma dato che me lo avete chiesto in tantissimi…”

Un mistero statistico che batte addirittura i sondaggi politici.
Solo a me nessuno fa mai complimenti per il profumo che indosso o mi chiede dove ho comprato quel rossetto tanto bello? Coincidenze? Non credo proprio.

📦 “Non sono qui per vendervi niente”

È come dire “ti invito a cena, ma non per mangiare”. Ti svelo un segreto: neanche io pubblico i miei codici sconto e uso i link affiliati per guadagnare commissioni. È solo che a differenza loro non ci riesco.

🧘‍♀️ “Vi invito sempre ad consumare in modo consapevole”

Fra haul settimanali, unboxing a raffica e “must have” stagionali, è sempre festa.
Come nelle migliori relazioni, se poi ti viene voglia di spendere soldi ed esageri, se il colore di quel rossetto non è come sembrava… il problema sei tu, non loro.

💬 “Non rispondo ai commenti negativi perché voglio mantenere questo spazio positivo”

Tradotto: ogni tanto qualcuno osa dissentire ma viene “silenziato” con grazia.
Il “clima positivo” è garantito da un diserbante digitale che elimina le opinioni un po’ troppo distanti dalle loro. L’armonia sì, ma curata come si fa con i bonsai: tagliando i rami storti.
In alternativa ti riservano la classica risposta a tono, piccata, con quel fare passivo-aggressivo che neanche gli avessero insultato la madre.

👑 “Io dico sempre quello che penso, anche quando so che non piacerà”

Questa frase andrebbe incisa sul marmo, ma con un asterisco: “purché non infastidisca brand, follower, algoritmo e agenzie”.

📦 “Questo video non è sponsorizzato, ho solo ricevuto il prodotto gratuitamente”

È la zona grigia dell’indipendenza con benefit, dove tutto è trasparente ma solo se guardi con la lente d’ingrandimento. Chi mi garantisce che stai parlando con sincerità e non solo guidato dalla paura di perdere le collaborazioni con i brand?

🧴 “Vi parlo di questo prodotto dopo mesi di test”

L’illusione è quella del laboratorio segreto, con appunti, confronti, tabelle. La realtà spesso è un flacone mezzo vuoto, usato quel tanto da poterne parlare con tono accademico.

🧿 “Ho scoperto questo brand indie e… raga, sono scioccata!”

Eccoli là, i pionieri tardivi! Quelli che scoprono i brand indie come Cristoforo Colombo scoprì l’America: pensando di aver trovato qualcosa di nuovo, quando in realtà è pieno di gente che ci vive da anni.
Ma certo: perché nessuno ne parla! Tranne quella nicchia di appassionati che li segue, li recensisce, li supporta da prima che il tuo algoritmo ti svegliasse dal torpore dei marchi mainstream.

E allora via con i reel pieni di stupore, colori saturi e titoli clickbait:
🎥 “Non credevo fosse così pigmentatoooo 😱”
🎥 “Questo brand indie batte tutti quelli da Sephora!”

Solo che… quei prodotti lì sono già cult, da anni. E magari tu li hai ricevuti in PR senza neanche cercarli, mentre chi li ama davvero ha fatto i salti mortali per comprarli tra spedizione internazionale, dogana, e inci da decifrare con il traduttore.
Dov’era questa gente quando tutti compravano Juvia’s Place su Beauty Bay e si litigavano i lanci Colourpop come i panettoni a Natale?

Per non parlare di: 🧠 I’m obsessed: inglesismi a caso senza sapere davvero l’inglese (perché comunque fa figo)

Nel loro vocabolario certe parole vengono infilate ovunque a mo’ di intercalare, come “letteralmente”, anche quando non c’è assolutamente nulla da enfatizzare. Quindi non solo il significato non è più quello originario, è pure sbagliato. Tralasciamo il discorso sulla pronuncia, per carità…
Ma perché mai fermarsi a questo? Anche termini come “disturbante” e “abusivo”, sono all’ordine del giorno perché, spoiler, i traduttori automatici non sono infallibili. Assurdo!
È quasi divertente vedere gente che brandisce l’inglese come se fosse una bacchetta magica, senza rendersi conto che, troppo spesso, risulta forzato e, in alcuni casi, fastidioso. Perché usare “lip”, “concealer” o “sponge” quando abbiamo già traduzioni precise in italiano? “Eh ma la lingua si evolve!” risponderebbe Giancazzo, e forse non ha completamente torto. Però, visto che non so come si evolverà (o involverà) l’italiano nel corso dei prossimi dieci anni, intanto preferisco restare fedele al lessico che abbiamo già, senza cercare di importare termini che a volte non fanno altro che ingessare il discorso. Non diventerò mai una “scrittrice”, ma almeno mi sforzo di essere comprensibile.


“Cosa dovrei fare, allora? Illuminami”.

Se il panorama odierno degli influencer è dominato da immagini glam, da linguaggi “globali” e da contenuti progettati per essere condivisi a tutti i costi, la domanda è legittima: come si può emergere senza cadere nella trappola di omologarsi completamente? La risposta sta, probabilmente, nel cercare un equilibrio che non svilisca la propria autenticità, senza rinunciare alla propria identità per adattarsi a un modello che sembra aver preso il sopravvento. Non sto dicendo che si debba abbandonare l’ambizione di migliorarsi, tutt’altro. La vera difficoltà sta nel non perdere sé stessi nel tentativo di aderire a uno schema predefinito.

Per distinguersi davvero non serve diventare una copia di ciò che va per la maggiore. Ciò che rende un influencer unico, interessante, è proprio la capacità di mantenere la propria originalità senza abdicare alla propria essenza. Perché, se è vero che l’estetica conta, è altrettanto vero che le persone, alla lunga, si stancano della superficialità e della mancanza di sostanza. In fondo, chi vuole seguire una persona che sembra più un personaggio da film che un essere umano vero? Ecco, questo è il punto cruciale. La chiave non è abbandonarsi al conformismo, ma piuttosto creare contenuti che siano genuini e significativi, anche se meno perfetti.

La vera arte sta nel comunicare senza maschere, nel mostrare la propria passione per ciò che si fa, che si tratti di un prodotto, un’opinione o un’esperienza. Non c’è bisogno di utilizzare una lingua “internazionale” o di adagiarsi su modelli estetici standardizzati per raggiungere il pubblico. Anzi, a volte è proprio quella spinta a voler sembrare più sofisticati o cosmopoliti che finisce per risultare più finta che altro. L’autenticità, in questo contesto, non è solo un valore da perseguire, è ciò che distingue chi ha qualcosa da dire da chi, invece, si limita a seguire il flusso. La domanda, quindi, dovrebbe essere: come posso rimanere fedele a me stesso senza abbandonare il desiderio di crescere e migliorarmi?

 

📱 Essere un modello (anche quando dici di non esserlo)

C’è un’altra frase che torna spesso tra i creator: “Io non voglio essere un modello per nessuno.”
Non so come la vedi tu, ma secondo me c’è un problema: il fatto stesso di essere seguiti da migliaia di persone rende quasi inevitabile diventarlo. Anche involontariamente. E il paradosso è tutto qui: più ti sforzi di sembrare “normale”, più qualcuno ti prende a modello proprio per questo.

È vero che nessuno obbliga nessuno a comprare. Nessun influencer verrà busserà mai alla tua porta per trascinarti a fare shopping nei negozi, né ti costringerà a cliccare il pulsante per chiudere quell’ordine online. Questo, però, non rende tutto privo di conseguenze. Perché se è vero che ognuno è responsabile delle proprie scelte, è anche vero che chi comunica per mestiere dovrebbe avere consapevolezza del modo in cui racconta le cose. Un conto è mostrare, un altro è suggerire (anche solo tra le righe) che certi acquisti, abitudini o standard siano necessari per stare al passo, per poter condurre una vita migliore, per sentirsi bene con se stessi.

Apro e chiudo una parentesi sul fatto di “sentirsi bene”: oggi volersi bene va moltissimo di moda. Lo dicono le didascalie, i reel in slow motion con la musica chill, le foto di tazze di matcha in bilico sulle lenzuola bianche. “Impara a volerti bene”, “Fallo per te”, “Tu meriti il meglio”. Un mantra ripetuto così tante volte che ha perso ogni significato. Ormai vuol dire tutto e niente — ed è proprio per questo che funziona: è un contenitore perfetto per qualunque cosa tu voglia metterci dentro.

Per alcuni significa prendersi una pausa e respirare. Per altri, aggiungere l’ennesima crema alla propria skincare routine. Per altri ancora, è un ottimo pretesto per comprarsi l’intera nuova collezione primaverile del brand “che parla ai nostri valori”. Mi amo, quindi spendo. Mi amo, io vengo prima di qualsiasi altra persona: basta scavare un attimo sotto la superficie per scoprire l’altro lato della medaglia. Perché l’“io prima di tutto” che nasce come risposta a secoli di annullamento, si trasforma facilmente in un individualismo tossico. Non è più “faccio del mio meglio per stare bene”, ma “chiunque mi chieda qualcosa diventa automaticamente una minaccia alla mia energia sacra interiore”. E allora ci si chiude, si scarta, si ignora — in nome dell’amor proprio. Ma amare davvero se stessi dovrebbe renderci più capaci di entrare in relazione, non più comodi a restarne fuori.

Il punto non è che prendersi cura di sé sia sbagliato — anzi. Il punto è che l’industria della bellezza (e affini) ha capito che il self-love è vendibile quanto l’insicurezza.
È sufficiente cambiare cornice: non ti dico più che sei sbagliata, ti dico che potresti essere migliore se solo ti volessi abbastanza bene da comprare questo prodotto. I soliti meccanismi di marketing che tutti dovrebbero aver imparato a riconoscere.

Così “volersi bene” non è più una pratica individuale, complessa e magari anche un po’ contraddittoria — è un’estetica. Un hashtag. Un linguaggio visivo fatto di specchi puliti, pelle luminosa e caption motivazionali scritte in Helvetica.
Volersi bene, oggi, è un’aspettativa. Un dovere. Un imperativo morale travestito da coccola. E se un giorno non ci riesci? Se ti fai schifo e basta? Se non vuoi alzarti, splendere e conquistare il mondo? Beh, allora sei tu il problema.
Volersi bene non può essere l’ennesima performance. Non può diventare un’altra voce nella to-do list, tra un workout e una spalmata di acido ialuronico. Perché se anche l’amore per sé diventa un contenuto da ottimizzare, allora forse non stiamo imparando a volerci bene, stiamo solo imparando a piacerci nel modo in cui ci guardano gli altri.

In conclusione, non intendo dire che si debba chiedere a chi crea contenuti di diventare santi o pedagoghi digitali, ma nemmeno di fingere che la propria voce non abbia peso. Dire “Non sono qui per influenzare” quando il tuo lavoro è proprio quello dell’influencer marketing, è un po’ come aprire un ristorante e dire che non vuoi far venire fame a nessuno.

In fondo, chi sceglie di esporsi, anche solo per parlare di trucchi o moda, entra in un dialogo con chi guarda. E in ogni dialogo c’è sempre una responsabilità: magari piccola, ma non invisibile. La verità è che influenzare dà potere. Non si può avere solo il vantaggio del palco e mai l’onere del copione.
Se tale responsabilità si nega del tutto, si finisce per prendere il microfono solo quando conviene e buttarlo a terra quando arriva una critica o una lamentela.

Essere un modello non è un obbligo. Ma far finta che il proprio esempio non abbia effetto su nessuno è, a voler essere gentili, una mezza bugia. A voler essere onesti, è un alibi.

 

Nel prossimo articolo cambiamo bersaglio. Ti aspetto!

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